Verso Medea
Un viaggio privo d'empatia
A dieci anni dal primo allestimento del capolavoro di Euripide, Emma Dante torna Verso Medea. A Le Fonderie Limone la tragedia dell'ira si fa danza terrigna. Rito ammaliante, imbevuto da liturgie primitive, in cui radici di un Sud lontano vengono scandite dalle litanie etniche dei Fratelli Mancuso.
"Immagino un viaggio intorno alla figura di Medea, racconta la regista palermitana, attorniata da uomini che sono le donne di Corinto. Immagino che questi uomini si sognano pance gravide, vagiti di neonati, coccarde e corredi di figli attesi. Immagino l'allestimento di questo spettacolo in un luogo pieno di grazia e di senso, dove l'atmosfera del teatro stesso rilevi la drammaticità della storia. Dove a riempire bastano un canto e un silenzio". Dove la parola di Medea riecheggi forte e chiara. L'amore e l'odio. Il travaglio è in atto e a Medea non resta che sgravare la sua tragedia.
Medea, l'infanticida macchiata del più orrendo dei delitti è donna barbara, che non riconosce altra autorità se non quella del proprio istinto. La sua appartenenza a un gruppo familiare o di classe o di nazione o di religione limita la sua presunta libertà. Medea si sente straniera ovunque. E per questo intraprende un viaggio che è un cammino d'amore. E scegliendo la colpa come dio a cui sacrificarsi – perché la storia lo esige, così come la sua indole - la sua natura sarà plasmata dalla sua stessa, intimissima, sofferenza.
"La diversità di Medea - spiega Emma Dante - ha a che fare col travaglio del parto, con la sua fertilità devastante e rigogliosa, con la sua innata capacità di generare e di perpetuare la specie in un paese abitato soltanto da un popolo maschile inadatto a sviluppare il seme. Giasone l'abbandona incinta e si fa re di una città sterile. Il vero delitto con cui Medea punirà Corinto, sarà negargli i figli, partorendo aborti come eredi, decidendo a monte il destino di una città nella quale senza di lei è impossibile."
Il rischio
I dettagli, come sempre per la Dante, costituiscono il substrato simbolico che contestualizza e anticipa la narrazione. Gli abiti neri e l'uso dei dialetti, con l'esternazione sonora di tutto un mondo – fra napoletano e siciliano, come ad unire simbolicamente il meridione - con i suoi estremi con-viventi, con la sua irrompente fisicità, villana e iper-reale, riportano subito alla sua tanto amata e odiata Sicilia. E il corpo, vestito di nero, attraverso la voce e il movimento, dà vita a quel mondo. Lo stesso in cui le fisicità sono performative naturalmente, e il cui corpo, visto dagli occhi di Pirandello, diede al mondo del teatro e non solo, l'intuizione dell'innata attorialità dell'essere umano.
Dallo stesso contesto, dalle stesse radici fatte di regole non scritte, è partorito quel corpo, quello del sud che, inconsapevolmente, è già in grado di andare in scena, talmente il suo linguaggio muto è ricco di sottigliezze, tanto i suoi gesti tradiscono o, al contrario, amplificano, pensieri e stati d'animo. Ecco la Danteha questa consapevolezza, le viene dal suo dna, insomma. Nelle sue opere infatti - misto di valorizzazione, recupero, e pubblicità di un sud abbandonato a sé stesso - il corpo, il mezzo cioè con cui l'attore fa vivere il personaggio, è sempre ruspante, iper-reale. Caricaturale, fumettistico, facilmente infiammabile dalla passione che accomuna il sud tutto. Con questa idiosincrasia, insieme alla pratica e ad una professionalità altissima, la regista siciliana ha costruito i suoi spettacoli, tanto da farne una cifra stilistica, un marchio doc potremmo dire.
Certo è che bisogna fare attenzione ai marchi, in quanto facilmente possono trasformarsi in brand produttori di oggetti seriali, se pur con minime variazioni. L'impianto registico di Medea infatti, con lo schieramento orizzontale degli uomini-donna, riporta in dietro a Le sorelle Macaluso fino a Carnezzeria; così come imperante e cadenzale, è diventato l'abito da sposa. Elementi distintivi certo, che negli anni, possono incorrere nel rischio di una resa incolore, nella perpetuazione dei cavalli di battaglia e non ultimo, nella furia della valorizzazione degli aspetti compositivi, si rischia di perdere il tratto distintivo di un'opera d'arte, il sistema emotivo sensoriale, in favore della presentazione di un ottimo prodotto artistico.
La sua Medea, infatti, non inspira empatia, ma ascolto, e conseguenza vuole, che si distacchi dal pubblico piuttosto che invaderlo emotivamente. Il pubblico assiste. Guardando è colpito dal corpo di Medea sofferente, dalle fisicità maschie delle donne meridionali. È catturato dalla follia sonora delle lingue che lottano. È rapito, come in ogni rito, dalle archeologie sonore dei Fratelli Macaluso. Il pubblico assiste, in definitiva, ad un ottimo spettacolo teatrale, con una regia egregia, attori formidabili, nel corpo e nella voce; musiche raffinate che nascondono una necessità antropologica di scavare il terreno delle radici del passato. Ancora, a suo favore, la rivalutazione del mito antico, trasportato all'interno di codici, antichi anch'essi, ma vigenti tutt'oggi.
Il massimo, insomma, come nel caso di Alain Platel, che nell'inaugurazione di Torinodanza, della stagione passata, ha presentato un perfettissimo prodotto da palcoscenico: insieme delle migliori intuizioni artistico-sceniche dal secondo Novecento, ai nostri giorni. Egregie messe in scena, sterili nel loro costruirsi di insieme di piccole perle che insieme non regalano emozioni ma azioni destinate a rimanere sul palco. Ecco, possiamo dire che Medea, l'infanticida entrata nel mito, non ha ucciso solo i suoi figli, ma con loro anche le emozioni.
"Immagino un viaggio intorno alla figura di Medea, racconta la regista palermitana, attorniata da uomini che sono le donne di Corinto. Immagino che questi uomini si sognano pance gravide, vagiti di neonati, coccarde e corredi di figli attesi. Immagino l'allestimento di questo spettacolo in un luogo pieno di grazia e di senso, dove l'atmosfera del teatro stesso rilevi la drammaticità della storia. Dove a riempire bastano un canto e un silenzio". Dove la parola di Medea riecheggi forte e chiara. L'amore e l'odio. Il travaglio è in atto e a Medea non resta che sgravare la sua tragedia.
Medea, l'infanticida macchiata del più orrendo dei delitti è donna barbara, che non riconosce altra autorità se non quella del proprio istinto. La sua appartenenza a un gruppo familiare o di classe o di nazione o di religione limita la sua presunta libertà. Medea si sente straniera ovunque. E per questo intraprende un viaggio che è un cammino d'amore. E scegliendo la colpa come dio a cui sacrificarsi – perché la storia lo esige, così come la sua indole - la sua natura sarà plasmata dalla sua stessa, intimissima, sofferenza.
"La diversità di Medea - spiega Emma Dante - ha a che fare col travaglio del parto, con la sua fertilità devastante e rigogliosa, con la sua innata capacità di generare e di perpetuare la specie in un paese abitato soltanto da un popolo maschile inadatto a sviluppare il seme. Giasone l'abbandona incinta e si fa re di una città sterile. Il vero delitto con cui Medea punirà Corinto, sarà negargli i figli, partorendo aborti come eredi, decidendo a monte il destino di una città nella quale senza di lei è impossibile."
Il rischio
I dettagli, come sempre per la Dante, costituiscono il substrato simbolico che contestualizza e anticipa la narrazione. Gli abiti neri e l'uso dei dialetti, con l'esternazione sonora di tutto un mondo – fra napoletano e siciliano, come ad unire simbolicamente il meridione - con i suoi estremi con-viventi, con la sua irrompente fisicità, villana e iper-reale, riportano subito alla sua tanto amata e odiata Sicilia. E il corpo, vestito di nero, attraverso la voce e il movimento, dà vita a quel mondo. Lo stesso in cui le fisicità sono performative naturalmente, e il cui corpo, visto dagli occhi di Pirandello, diede al mondo del teatro e non solo, l'intuizione dell'innata attorialità dell'essere umano.
Dallo stesso contesto, dalle stesse radici fatte di regole non scritte, è partorito quel corpo, quello del sud che, inconsapevolmente, è già in grado di andare in scena, talmente il suo linguaggio muto è ricco di sottigliezze, tanto i suoi gesti tradiscono o, al contrario, amplificano, pensieri e stati d'animo. Ecco la Danteha questa consapevolezza, le viene dal suo dna, insomma. Nelle sue opere infatti - misto di valorizzazione, recupero, e pubblicità di un sud abbandonato a sé stesso - il corpo, il mezzo cioè con cui l'attore fa vivere il personaggio, è sempre ruspante, iper-reale. Caricaturale, fumettistico, facilmente infiammabile dalla passione che accomuna il sud tutto. Con questa idiosincrasia, insieme alla pratica e ad una professionalità altissima, la regista siciliana ha costruito i suoi spettacoli, tanto da farne una cifra stilistica, un marchio doc potremmo dire.
Certo è che bisogna fare attenzione ai marchi, in quanto facilmente possono trasformarsi in brand produttori di oggetti seriali, se pur con minime variazioni. L'impianto registico di Medea infatti, con lo schieramento orizzontale degli uomini-donna, riporta in dietro a Le sorelle Macaluso fino a Carnezzeria; così come imperante e cadenzale, è diventato l'abito da sposa. Elementi distintivi certo, che negli anni, possono incorrere nel rischio di una resa incolore, nella perpetuazione dei cavalli di battaglia e non ultimo, nella furia della valorizzazione degli aspetti compositivi, si rischia di perdere il tratto distintivo di un'opera d'arte, il sistema emotivo sensoriale, in favore della presentazione di un ottimo prodotto artistico.
La sua Medea, infatti, non inspira empatia, ma ascolto, e conseguenza vuole, che si distacchi dal pubblico piuttosto che invaderlo emotivamente. Il pubblico assiste. Guardando è colpito dal corpo di Medea sofferente, dalle fisicità maschie delle donne meridionali. È catturato dalla follia sonora delle lingue che lottano. È rapito, come in ogni rito, dalle archeologie sonore dei Fratelli Macaluso. Il pubblico assiste, in definitiva, ad un ottimo spettacolo teatrale, con una regia egregia, attori formidabili, nel corpo e nella voce; musiche raffinate che nascondono una necessità antropologica di scavare il terreno delle radici del passato. Ancora, a suo favore, la rivalutazione del mito antico, trasportato all'interno di codici, antichi anch'essi, ma vigenti tutt'oggi.
Il massimo, insomma, come nel caso di Alain Platel, che nell'inaugurazione di Torinodanza, della stagione passata, ha presentato un perfettissimo prodotto da palcoscenico: insieme delle migliori intuizioni artistico-sceniche dal secondo Novecento, ai nostri giorni. Egregie messe in scena, sterili nel loro costruirsi di insieme di piccole perle che insieme non regalano emozioni ma azioni destinate a rimanere sul palco. Ecco, possiamo dire che Medea, l'infanticida entrata nel mito, non ha ucciso solo i suoi figli, ma con loro anche le emozioni.
gb
Fonderie Limone Moncalieri
VERSO MEDEA
da Euripide
testo e regia Emma Dante
musiche e canti Fratelli Mancuso
con Elena Borgogni, Carmine Maringola, Salvatore D'Onofrio, Sandro Maria Campagna,
Roberto Galbo, Davide Celona
coro Fratelli Mancuso
luci Marcello D'Agostino
www.emmadante.com
VERSO MEDEA
da Euripide
testo e regia Emma Dante
musiche e canti Fratelli Mancuso
con Elena Borgogni, Carmine Maringola, Salvatore D'Onofrio, Sandro Maria Campagna,
Roberto Galbo, Davide Celona
coro Fratelli Mancuso
luci Marcello D'Agostino
www.emmadante.com